di Alessandro D’Avenia
Avevo cinque anni, ero all’asilo, il periodo in cui creare significa conoscere. Soprattutto con il pongo: vere e proprie epopee di plastilina.
Poi la maestra Gabriella mi chiamò: dovevo cambiare classe. Mi fidavo di lei e della sua voce sottile, così mi lasciai condurre in prima elementare. C’erano banchi-trincea, non ci si guardava in faccia, ma si scorgeva solo la schiena delle linee amiche contro il nemico, la maestra, che mitragliava le tabelline: avevo abbandonato il mondo incantato della creazione per entrare in quello cruento del far di conto. Il corpo non poté fuggire, l’immaginazione sì. Infatti sulle pareti c’erano bizzarre figure associate a segni eleganti: “Gn” con uno Gnomo di verde vestito, “F” con una farfalla in giallo, “C” con un coltello. Ma la “C” appariva anche in un altro cartellone con le ciliegie: la stessa lettera aveva suoni affilati come coltelli e dolci come ciliegie. Quei disegni mi salvarono dalle tabelline (lutto mai elaborato), perché cominciai a immaginarmi le vite invisibili di quei personaggi quando la scuola era vuota: non volevo far di conto, ma di racconto. Così nacque la mia prima storia, fatta di parole, non di pongo, ma forse più duttili della plastilina, se ben usate: che cosa faceva lo Gnomo alla Farfalla con un Coltello? Un racconto di sangue, non ricordo il finale, forse lo sto ancora cercando in ogni libro che scrivo.
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